Come spesso ripeto, sono una pedagogista e non una psicologa, perciò il mio è un approccio pedagogico alle stesse materie di pertinenza anche degli altri professionisti e come tale mi confronto con la preoccupazione di una madre nel vedere la propria figlia, suo dire, “depressa”.

Le depressione nei bambini esiste, soprattutto nei figli di genitori ansiogeni o loro stessi depressi, ma può accadere che anche una ragazza solare con dei genitori sereni e ridanciani si trasformi nel giro di breve tempo in una adolescente triste e apparentemente depressa, motivo per il quale ritengo importante riconoscere questi segnali come indice di un disagio temporaneo, dovuto ad un qualche evento negativo che la ragazzina ha affrontato o, se, invece è già transitata in uno stato depressivo più concreto.

Come ho scritto la pedagogia non ha competenze psicodiagnostiche i cui strumenti non mirano al raggiungimento di una certezza verso l’esistenza o meno di una patologia, ma osserva la situazione della persona umana nella sua attitudine comportamentale e nei meccanismi che attiva di fronte ad un disagio esistenziale o contro una difficoltà interna ed esterna del momento. Persona alla quale offrire il confronto ed il sostegno idoneo per riconoscere le risorse a disposizione, anche estraendone quelle residue, al fine di saper affrontare la difficoltà e tentare di risolverla, oppure inoltrandola ad un consulto con uno specialista laddove i segnali sono chiaramente quelli di un quadro ormai criticizzato.

Un atteggiamento depressivo può riferisi ad una attitudine psicoemotiva che sostanzialmente simula la depressione nei suoi macrosegnali ma non necessariamente la persona è depressa, specialmente nel corso della fase evolutiva tra la preadolescenza e la maturità, durante la quale molti sono i fattori inquinanti la serenità dei ragazzi e delle ragazze per numerose differenti variabili non psicogene o radicate a delle “cattive emozioni”.

Per fare un esempio concreto, mia figlia Matilde quattro anni fa ha subito un trauma cranico dal quale si è sviluppato un danno assonale al corpo calloso del cervello, è sotto una profilassi farmacologica importante e tutto questo certamente incide nel suo umore, tanto che a volte sembra “cambiare umore” nel giro di pochi minuti senza apparenti ragioni nonostante sia sempre stata ed è una bambina ed una ragazzina solare. Comprendo quindi che un suo apparente stato depressivo ha una orgine o comunque potrebbe essere condizionato dal trauma, stando doppiamente attenta a non “alibizzare” i naturali disagi adolescenziali con il trauma che le ha e ci ha cambiato la vita in qualche modo.

La fase evolutiva adolescenziale rappresenta quindi essa stessa una delle variabili del disagio dei ragazzi e, i genitori, dovrebbero fare molta attenzione da un lato a non sottovalutare un segnale di disagio dicendo “che tanto ci siamo passati tutti” e, dall’altro, non enfatizzare invece il normale percorso di crescita caratterizzato proprio da numerosi momenti “up & down” prima di raggiungere un substrato più ordinario.

Una ragazzina di 14 anni non è più la bambina che a volte vorrebbe ancora essere e non è nemmeno una ragazza già adolescente, impantanata perciò in un limbo di passaggio appensantito anche dal distacco dalle scuole dei piccoli verso quelle dei grandi per esempio, specialmente ove si trova a scegliere un indirizzo di studi con la responsabilità di una scelta autonoma o, più spesso, indirizzata “spintaneamente” dalle aspettative dei genitori.

Vive una fase di passaggio molto importante tra la fase di latenza alla fase genitale (Freud) e proprio questa ultima inquina in modo preponderante la capacità di ascolto dell’adolescente, vittima di un bombardamento dei sensi e delle emozioni ingerente nei pensieri, nelle scelte, nell’umore e nella attitudine comportamentale in particolare, quella che offre al confronto del mondo oltre sè stessa, genitori inclusi.

La madre di questa quattordicenne che si affaccia al mondo relazionale emotivo e sensoriale oltre i confini della famiglia, dovrebbe inoltre stare attenta alla sua stessa eventuale depressione per non proiettarla nella figlia, chiedendosi per esempio se è una donna serena, calma, riflessiva, felice, competente ed equilibrata oppure se è preda di eventuali pensieri catastrofici intrusivi, intollerante al confronto ed alle frustrazioni, incapace di accettare di essere posta in discussione proprio dalla figlia e, più semplicemente, se si riconosce in una donna soddisfatta anche nella maternità, nella sua genitorialità oltre una bella professione o un ruolo sociale appagante.

Fatto questo è importante ora osservare i presunti segnali depressivi manifestati nella figlia per evidenziare una criticità a lungo termine rispetto ad un disagio evolutivo, di tipo relazionale, sensoriale ed emotivo e, per sensoriale, mi riferisco anche agli impulsi sessuali che la ragazzina inizia a percepire dal corpo e dalla mente sia internamente che nel confronto con i coetanei.

La madre non deve eseguire una psicodiagnosi secondo i coefficienti indicatori la specificità della depressione, bensì osservare la figlia nelle sue attitudini comportamentali e relazionali, sapendo cogliere gli indici di un progressivo confinamento verso i segnali depressivi oltre il momento o gli sbalzi d’umore.

Una quattordicenne può apparire cupa, forse triste, magari trascurante alcuni aspetti invece fino a poco tempo prima prevalenti, meno sociale e socializzante e, questi, sono indici di attenzione ma non debbono essere “vestiti” di una classificazione diagnostica data dagli adulti proprio per le ragioni sopra descritte.

L’alleanza madre-figlia è una risorsa utile, importantissima, la quale merita però la delicatezza di saper riconoscere la misura corretta per non invadere il nuovo mondo della figlia, in cui non basta essere una madre aperta e giovanile oppure comprensiva, perchè è un mondo tutto suo, della ragazza, con il quale si confronta con tempi e modi diversi da quanto prima conosciuto.

Se la tristezza persiste, l’aurea apparentamente negativa anche, l’umore non è più ballerino ma nel lungo termine rimane cupo, certamente occorre comprenderne le ragioni; senza attribuirvi un peso pari ad un “problema” ed evitando di “incolpare” la figlia del malessere che la madre avverte dal malessere vissuto dalla figlia stessa, altrimenti si trasforma in una ridondanza di disagi individuali nascosti nel rapporto figlia-madre e madre-figlia.

Una quattordicenne, se è stata cresciuta in una relazione sana con i genitori, ha i modi e le opportunità per esprimere un suo disagio emotivo, diversamante da chi invece è stata abituata alla superficialità, al dare importanza agli oggetti e basta, a sottovalutare il valore delle emozioni contro quello delle sole sensazioni spesso caratterizzato dal dirsi “sto bene, sto male” e così vi è solo la spinta alla rincorsa verso l’oggetto che dona benessere (sto bene) contro la fuga da tutto ciò che è fonte di malessere (sto male) anche se positivo e di assoluta importanza. Con il rischio di ritrovarsi alla attitudine comportamentale tipica dell’egoismo e dell’autarchia che si racconta “sto bene io, debbono stare tutti bene” e chi sta male rappresenta un disagio da allontanare, come il dirsi “sto male io, debbono star male anche gli altri” e chi sta bene rappresenta il confronto intollerabile da abbattere o annullare.

Diverso è ciò che la ragazzina manifesta in modo inconsapevole tramite degli eventuali meccanismi difensivi attivati da una sofferenza maggiore di un semplice malessere e, questo, è materia più specifica dei colleghi psicologi e non della pedagogista, ruolo in cui posso solo invitare la madre ad osservare i disegni della figlia, a comprendere il nuovo tessuto amicale in cui “sguazza” anche di fronte all’uso autonomo della rete e delle relazioni virtuali grazie alla messaggistica, a valutare anche l’aspetto sessuale nei conflitti che talvolta gli adolescenti incontrano tra un indirizzo “imposto” dalla mentalità familiare verso la prima scoperta di essere attratti da coetanei dello stesso sesso.

Non serve a nulla imporre dei paletti in cui la ragazza si troverà costretta solo a confermare quel che la madre desidera sentirsi dire, oppure a dissimulare un disagio che invece meriterebbe un confronto più ricco. E’ necessario darle fiducia nello spazio utile a permetterle di riconoscerle il significato di fiducia in lei e non solo data dai genitori.

Perchè una quattordicenne che si affaccia verso una nuova scuola nella quale non incontra più dei bambini delle elmentari o delle medie ma dei ragazzi dalla prima alla quinta liceo per esempio, se non più grandi a già strutturati verso una “adulteria” non ancora matura, che si approccia alle prime relazioni fisiche ed emotive in lotta tra l’impulso dei sensi e le barriere psicologiche di riferimento, oltre alle difficoltà pratiche del percorso di studi ora ben diverso dalle medie in cui eccelleva trovando magari delle deficienze, per non parlare del cambiamento del corpo da confrontare con dei requisiti diversi dal solo scoprirsi mestruata, vive tutto questo come una tempesta che richiede qualche periodo di assestamento, anche sotto forma di tristezza, senso di inadeguatezza, insicurezza, irascibilità o cupezza frequente tanto da renderla differenze da “l’acqua marina” che è stata fino a pochi mesi prima.

E’ depressa? Per forza depressa?

Oppure vive più semplicemente le difficoltà del crescere e del suo crescere, fase durante la quale noi genitori dobbiamo saper accettare l’esclusione che i figli ci impongono ed il rifiuto di ascoltarci, di cui necessitano proprio per crescere, senza spiarli dal buco della serratura o spulciare il loro PC o telefonino, ma comprendendo che se vogliamo essere realmente di aiuto dobbiamo imparare ad entrare nel nuovo mondo dei nostri figli in punta di piedi per riuscire a comprendere la differenza tra un temporaneo malessere o una reale depressione con dei disagi a lungo termine.

La fase genitale che Freud ci ha proposto, ed io non sono una particolare seguace di Freud, spiega però ai genitori i motivi per i quali ad un certo punto i figli “staccano” e non solo si distaccano progressivamente dalla famiglia, come è giusto che sia. Ove lo staccare assume il senso dell’arrogante baldanza o della triste cupezza e, anche questa madre, ha il dovere di non imporre le sue esigenze ai tempi di espressione della figlia che, non necessariamente, saranno immediatamente interpretabili nei loro contenuti.

Concludo dicendo che qualche volta il sottovalutare i segnali rischia di non decriptarli per il disagio che nascondono ma, anche, sapendo che l’umore di una adolescente attuale potrebbe essere ben diverso da quello che abbiamo vissuto noi, anche se la figlia ha tutti i motivi per essere felice perchè, secondo la madre, “non le manca nulla” ove già affermare questo manifesta una certa supponenza nel vivere il nuovo mondo della figlia.

Sara