Ho sempre creduto che gli studenti sin dal primo anno di scuola hanno bisogno di tutto meno che di un voto, bello o brutto che sia, il quale nel corso delle progressive classi diventa una sorta di spettro da soddisfare o da temere, tra quei genitori che dai figli pretendono sempre la media del 10 e gli altri più sereni e mediatiori delle insufficienze riportate.

Spiegare il significato del voto ai miei figli significa solo permettergli di capire le lacune da colmare e la qualità dell’impegno verso una materia specifica, oppure segnale di un periodo durante in quale l’attenzione è minore per mille diverse variabili.

Offro quindi un giudizio sulle loro competenze scolastiche e generali e, non, un commento sul voto dei risultati ottenuti da una verifica rispetto che da una interrogazione, momenti certamente importanti ma è altrettanto importante che questo passaggio sia sereno e non caratterizzato dalla paura del brutto voto e dalla media da tenere alta.

Il giudizio assume per i bambini ed i ragazzi una opportunità di confronto, li stimola senza mortificarli e gli consente di porsi in discussione con le proprie lacune e non con quanto è bravo l’altro compagno. Il voto contiene invece il valore mortificatorio delle prestazioni, le quali creano ansia, oltre a quello competitivo tra i compagni di classe ed in qualche modo discriminatorio contro chi fatica a tenere il passo.

I tempi dell’infanzia, della pre-adolescenza e della adolescenza hanno orologi evolutivi diversi tra i bambini ed i ragazzi, subiscono numerose forme di condizionamento extra-scolastico rispetto ai soli confini della classe nella quale le lezioni sono strutturate e coordinate dagli insegnanti, costretti a giudicare i loro alunni sulla base di coefficienti numerici delle apatiche tabelle; 9 meno che senso ha rispetto ad un 8 più oppure 10 meno, mi chiedo, solo perchè manca una risposta giusta o un esercizio è errato, ripetendo che i nostri figli sono a scuola e non all’esame di ammissione per un concorso pubblico.

Il voto gratifica forse quei genitori che persistono nel pretendere dai loro figli il 10 pieno e fisso, altrimenti scade chissà quale valore.

Il voto mortifica forse quei genitori meno capaci di permettere ai figli di studiare per il 10 fisso, timorosi della vergogna a causa del figlio somaro.

Il voto non offre agli studenti niente altro che uno scoglio da superare, tra chi sarà sereno di fronte al 10 pieno oppure ansioso nel tornare a casa e dover giustificare un 7 magari, come quei compagni di classe che per ogni 5 subiranno invece cinque dita in faccia da quei genitori brevi manus.

Il voto vorrebbe forse essere uno strumento motivazionale, per stimolare gli studenti verso un miglioramento? Se così fosse avremmo solo un branco di pecore con i voti da lupo ma non sempre saranno capaci di ululare alle difficoltà della vita una volta usciti da scuola.

Un tempo giunti alla terza media vi era l’indirizzo verso il liceo classico per i bravi, il professionale per i sufficienti, la scuola per saldatori per gli altri oltre a chi interrompeva gli studi per un libretto di lavoro da apprendista.

Oggi non possiamo più assistere all’abbandono scolastico per una officina oppure per una parrucchiera, lavori meravigliosi che offrono una certezza sotto il profilo dello stipendio nel corso del tempo, ma senza una formazione ampia e completa si limita non solo la possibilità di un futuro professionale quanto la riduzione della cultura, della formazione della mente nella sua capacità di apprendere, aprendosi.

“E’ inutile insistere, mio figlio-mia figlia non è fatto-a per studiare”. Quante volte abbiamo ascoltato queste parole da parte di chi appare anche felice di sapere che il figlio è il più bravo garzone dell’officina o la figlia è la più brava sciampista del negozio.

Fino a quando lo studio sarà interpretato solo come un obbligo, terminati i doveri con il minimo risultato raggiunto siamo liberi, non avremo mai quel continuum tra scuola e famiglia idoneo ad aiutare le politiche per la scuola ed anche le famiglie meno capaci di comprendere l’importanza di una laurea magistrale per la cultura dei loro figli, dopo la quale si aggiustano i motori e si fanno degli sciampi allo stesso modo, se vi è la passione per quel mestiere.

Ho una laurea magistrale ma non sono migliore di chi ha la terza media, ho solo quelle opportunità che lo studio ha consentito alla mia mente per interpretare ed esprimere dei ragionamenti più qualificati ma non per questo migliori di altri, solo più aperti rispetto ai confini del “così è punto e basta” che nasce da una difesa tipica di chi si trova di fronte a quel che non conosce o comprende appieno, con tutte le intolleranze che questa frustrazione sviluppa.

Non è la sola conoscenza della paideia, del grammatista del citarista e del pedotriba che ti consente di mantenere la Famiglia, ma ti permette di crescere i figli con la mente aperta, meno difesi, più sereni nel confronto con gli ostacoli e, questo, si inizia ad imparare con il giudizio per confrontarsi con le proprie capacità e le lacune, non con un voto numerale che, alla fine, dura per il tempo utile a superare l’esame il più delle volte.

Educhiamo i figli alla passione per l’apprendimento ed alla sconfitta dell’ignoranza, ed avremo dei futuri adulti con una vita da 10 e lode in ogni caso.

Sara