DUE PAROLE SULLA CAPACITA’ DEI BAMBINI E DEI RAGAZZI DI REAGIRE AD UN EVENTO TRAUMATICO

Quando i figli patiscono le complicanze di un serio trauma o di un grave infortunio noi genitori abbiamo la scelta tra vittimizzare passivamente l’evento sia con tutta la drammatizzazione di quanto è accaduto, recitando il classico “perchè proprio a noi?” con il rischio di una vittimizzazione secondaria in danno dei figli, oppure reagire agendo le risorse di cui siamo capaci, prima tra le quali l’intelligenza emotiva e la capacità di resilienza (su cui scriverò un futuro articolo).
Può accadere come è accaduto alla nostra Famiglia che un evento improvviso e traumatico imponga un radicale mutamento degli assetti attuali e dei progetti futuri, fatto che possiamo considerare come “sfortuna” oppure come un qualcosa che nella vita può avvenire in forza di un cinico destino, per volontà di terzi oppure per disattenzione ma, in ogni caso, non dovremmo assumere il ruolo di protagonisti unici della “sfortuna” ripetendoci come un vittimistico mantra quel “perchè proprio a noi?”.
Perchè può accadere a tutti, noi compresi. Perchè di fronte alla vita non siamo diversi da chiunque altro abbia subito un trauma o sia nato con una disabilità e purtroppo la vita stessa ha nei suoi angoli bui molte trappole anche a causa di terzi che causano dolore, oppure una malattia che genera sofferenza e senso di impotenza, motivo per cui è importante “essere pronti” ad offrire ed offrirci una risposta.
E’ importante per esempio consentire ai figli, naturalmente in base alla loro età cronologica ed alle risorse attuali e residue di cui dispongono dopo l’evento traumatico, di essere consapevoli di quanto gli è accaduto senza affogarli nella vittimizzazione oppure iperproteggerli con l’ansia o dissimulando l’entità del danno, impedendo loro in questo modo di esprimere le risorse residue assolutamente necessarie per recuperare il recuperabile al fine di equilibrarsi attivamente, e non abituarsi passivamente, nella condizione che affrontano dopo un trauma.
Chi mi legge ha compreso che il confronto che offro nasce dalle esperienze personali sommate alle competenze tecniche della pedagogista, non ho altre “ricette” in favore di chi vive una realtà tale da avergli cambiato la vita; posso però parlare di come la nostra Famiglia ha reagito di fronte al danno assonale al corpo calloso del cervello di Matilde, non solo nella attuale situazione clinica fortunatamente non gravissima o fortemente invalidante ma nella passività dei potenziali peggioramenti nel caso di un aggravamento degli assoni danneggiati, spettro che non possiamo ignorare.
Matilde è pienamente consapevole del significato di Danno Assonale nella sua manifestazione più grave, ma è altresì cosciente della sua personale situazione di fronte alla misura del danno dei (suoi) assoni, misura che non necessariamente rimmarrà tale perchè potrebbe peggiorare ma non per questo vive con la paura che ciò avvenga, perchè noi genitori non le trasmettiamo un’ansia in tal senso o le impediamo di vivere quelle situazioni a rischio, stiamo solo attenti educandola a stare attenta nel proteggere la sua testa proprio perchè è più “fragile”.
Quello che spiego a mia figlia rispetto alla situazione che vive dall’età di 8 anni è che non è lei, Matilde, il problema, ma ciò che ha patito dal trauma che ha reso problematici alcuni aspetti della sua e della nostra vita, ad iniziare dalla quotidiana somministrazione di un pesante farmaco per più volte al giorno tutti i giorni per esempio ed alle “crisi” nelle sue varie manifestazioni le quali incidono nella serenità della Famiglia quando avvengono.
Mia figlia è consapevole che quanto le accade proviene dall’esterno, che non è “colpa sua” il disagio imposto dall’evento accaduto che lei patisce in prima persona, il quale ha certamente costretto la nostra Famiglia a rimodulare le misure delle scelte “esistenziali” che a suo tempo facemmo.
Se vogliamo rendere i nostri figli capaci di reagire ad un evento traumatico occorre porli nelle condizioni di concretizzare ed agire le loro risorse e quelle che gli trasmettiamo, togliendo ogni eventuale ostacolo affinchè questo avvenga, ad iniziare dalla sterile vittimizzazione e dalla commiserazione di un evento grave che certamente condiziona nelle varie misure la vita di una famiglia.
“Qui ed ora”. Non è un motto motivazionale oppure un rifugio filosofico per donare alla sofferenza un valore esistenziale ma è una opportunità per radicarci ai dati di fatto della realtà del momento, senza vincolarci e vincolare i figli a quel che siamo stati, e non possiamo più essere, oppure alla paura di quel che saremmo.
Qui ed ora è ciò che ci consente di produrre futuro senza rincorrerlo, con i tempi della situazione e con le risorse che giorno per giorno siamo in grado di concretizzare ed esprimere, senza il peso di “quel che è successo” che non ignoriamo ma rimane un riferimento da cui ri-partiamo, non al quale siamo vincolati con rassegnazione.
Ogni genitore trova ispirazione da diverse fonti, chi dalla fede, chi dai santini di Padre Pio sotto il cuscino dei figli, chi anche con delle immaginifiche realtà esoteriche comunque a loro utili per gestire il dolore, chi dalla propria esperienza o da altre molte altre risorse degne di essere coltivate, concretizzate ed espresse, soprattutto quelle residue, tali perchè mai espresse prima e quindi solo latenti oppure riconosciute nel momento del trauma e del post trauma.
I bambini ed i ragazzi sono in grado di reagire ad un evento traumatico sempre, ognuno nella propria misura la quale può crescere se gli permettiamo di essere leggeri dal peso della vittimizzazione, della rassegnazione e della passività del “meschineddu” in riferimento alle mie origini sarde.
Il peggiore abbandono che possiamo agire nei confronti di un figlio che vive una difficoltà è l’abbandono delle sue risorse perchè impedite dal trauma che lo ha reso invalido o parzialmente disabile, oppure ne ha ridotto le funzioni fisicomotorie sensoriali intellettive e relazionali.
Ai bambini ed ai ragazzi gli basta solo la nostra fiducia nella loro “fiducia latente” per comprendere quanta fiducia possono avere in loro stessi, senza trasformarli in degli incursorsi paracadutisti pronti a superare mari e montagne, oppure in una sorta di “male minore” da raggiungere per simulare di non avere un male peggiore.
Qui ed ora, con le risorse del momento le quali mutano momento per momento nella progressione evolutiva della loro crescita e nella misura del disagio post traumatico, complementando le caratteristiche dei bambini e dei ragazzi alle opportunità d’ambiente grazie alle quali esprimere le loro risorse, con lo sport per esempio o nei modi in cui siamo in grado di farlo.
Matilde mi chiese di poter gestire in modo autonomo la somministrazione dei farmaci che assume, le cui dosi ridotte o in eccesso possono essere pericolose, trovando in me il conflitto tra la fiducia da darle e la paura di un errore nella misurazione tra boccioni e siringhe, poi è bastato addestrarci per qualche tempo fino ad osservare quanto questo le abbia consentito di agire la concretizzazione di quella fiducia trasformandola in risorsa poi diventata utilissima nella situazione in generale.
I bambini ed i ragazzi colpiti da un trauma non sono traumatizzanti per il resto della famiglia in ragione delle complicanze patite, non dobbiamo mai farli sentire tali perchè già lo percepiscono in qualche misura da soli, quando comprendono che “dipendono” dalla cura e dalla assistenza altrui o avvertono il “peso emotivo” delle preoccupazioni o della terribile vittimizzazione.
La loro autonomia è una risorsa importante, in qualunque forma possibile, perchè è soprattutto la percezione psicoemotiva che ne traggono che consente di incrementare le opportunità di reagire ad un evento traumatico agendo le loro stesse emozioni positive.
“Meschineddu” è una espressione sarda che troviamo in centinaia di lingue e dialetti diversi, ma non serve a nulla se, non, alla commiserazione di un evento che caratterizza chi lo patisce in chiave vittimistica.
Mai commiserarsi, mai abbandonarsi all’appagante vittimismo, mai proiettare nei bambini e nei ragazzi la vittimizzazione dei genitori, altrimenti gli imponiamo anche una “disabilità emotiva” che aggrava le complicanze del loro trauma.
La grinta non nasce dal carattere di una persona, ma dalle opportunità che ci doniamo per superare un disagio o per conviverci senza perdere noi stessi.
Sara