Nel mio lavoro capita di tanto in tanto di imbattermi nel disagio delle donne in una misura diversa dall’affrontare i problemi più comuni alle madri ed alle mogli, specialmente nei casi in cui questo si trasforma in violenza, subita da parte del marito all’interno delle mura domestiche.

Oggi sono molti gli strumenti per chiedere aiuto tra telefoni dedicati gestiti dalle associazioni di volontariato, riferimenti comunali e dei servizi sociali, progetti mirati sul territorio e naturalmente le utenze classiche dell’emergenza ma, ciò nonostante, l’indice del sommerso delle violenze domestiche è ancora elevato a causa della paura di denunciare da parte delle donne aggravata dalla consapevolezza delle loro vulnerabilità in termini di debolezze personali, sostentamento e cura dei figli, tanto che il ricatto posto in essere da quei mariti vessatori recita sempre la stessa solfa, “dove vai senza di me, sono io che vi mantengo” specialmente nei casi in cui la moglie è straniera o proviene già da un disagio precedente al matrimonio.

Se si parla di violenza fisica emotiva e psicologica in danno di una donna e dei figli, la rilevanza penale emerge chiaramente e non è più una semplice richiesta di un confronto con una professionista, la quale, se è tale, non può che stimolare la propria assistita a denunciare i fatti tramite i canali ufficiali della querela, avvocati polizia e circuiti strutturati per donarle ogni risorsa protettiva durante le fasi indagatorie ed eventualmente processuali.

Non tutte le donne sono però in grado di comprendere l’importanza ed i benefici di una denuncia perchè vedono in questa solo un incremento delle reazioni patite da parte del marito violento, il quale le avrà certamente inondate delle parole protese a farle sentire minori, come le classiche “tanto non ti crede nessuno perchè non vali nulla” oppure “non hai prove e ti faccio togliere i figli” fino al “chi ti mantiene poi, che hai la terza media presa a calci e non sai far niente”.

Proprio la denigrazione è il primo segnale vessatorio al quale donare molta attenzione, perchè da questo segue la delegittimazione e quindi la prevaricazione verbale e fisica, con la mortificazione e le botte, estese spesso anche ai figli quando non cessano di piangere per esempio oppure se più grandi nel momento in cui si frappongono a tutela della madre.

Paradossalmente la donna così vessata si abitua ad essere colpita e maltrattata, raccontandosi che subisce questo in una immaginifica tutela dei figli per giustificare la sua sostanziale passività, fino a quando non prende coscienze o le fanno prendere coscienza della realtà, momento in cui nasce il desiderio di rivalsa che noi professionisti dobbiamo saper ben valutare per non avallare la sola voglia di vendetta rispetto alla reale effettiva protezione e tutela.

Nella mia esperienza consiglio sempre di denunciare al secondo schiaffo, il primo lo possiamo considerare una manifestazione di intolleranza che può sempre essere compensata da un serio percorso di mediazione e di sostegno per il marito, il quale dirà che si è sentito provocato oppure che non è riuscito a controllarsi. Dal secondo schiaffo, per quanto sia intollerabile il solo gesto del primo, si prende coscienza che quell’uomo è violento ed usa la violenza punto e basta; le ragioni per cui lo faccia saranno materia dei professionisti ai quali chiederà aiuto o dei Carabinieri che lo porteranno in caserma.

L’ascolto pedagogico del disagio della donna maltrattata è un lavoro serio che richiede la capacità di restare radicati ai dati di fatto e di radicare la donna ai dati di fatto, ivi compresi i reali ed effettivi confini dell’assistenza pedagogica, oltre i quali è materia legale e giudiziaria in cui la pedagogista può anche essere chiamata come consulente di parte o ausiliaria di polizia giudiziaria ma sono incarichi diversi dal solo ascolto pedagogico.

Il marito violento è presente in numerose famiglie, le cui scuse, al secondo schiaffo, non hanno più alcun valore giustificativo, contro il quale occorre imporre un muro alto e strutturato che la sola moglie non è in grado di ereggere nella stragrande maggioranza dei casi.

Chiedere aiuto è il primo passo, poi le donne maltrattate necessitano di essere non solo supportate da tanta buona volontà ma anche di strumenti reali protesi alla formazione psicoemotiva e professionale per consentirle di “rifarsi una vita” in piena autonomia interna ed esterna, altrimenti le illudiamo e basta, con il rischio che tornano dal marito violento, ormai capaci di gestirne le vessazioni.

Sara