DOTTORESSA MI AIUTI, NOSTRO FIGLIO ADOTTIVO NON ADOTTA LE NOSTRE REGOLE

Ritengo giusto e necessario ricordare che gli eventi che tratto nei vari articoli pubblicati si riferiscono a delle esperienze professionali e personali affrontate nel corso degli anni e non hanno un preciso riferimento a dei fatti attuali o a persone del territorio in cui risiedo.
Il confronto pedagogico nasce proprio dalle esperienze, le quali consentono a molti altri di riconoscersi in esse e di trarne beneficio.
Adottare un figlio rappresenta un atto di amore sia verso i bambini orfani o abbandonati che nei confronti dei genitori desiderosi di averne; non dovremmo mai confondere le profonde ragioni di una adozione con i motivi per i quali non possono nascere dei figli biologici o pur avendo dei figli propri taluni scelgono di adottarne altri, altrimenti si scade nel valore giudicante tale scelta, una scelta personale, spesso caratterizzata da un lungo e difficile percorso e talvolta pone in discussione coloro che l’hanno compiuta a causa degli eventi futuri, ben diversi da quelli sognati.
Ripeto spesso che sono i genitori ad essere adottati dai bambini e non solo il contrario, proprio per stigmatizzare che non vi sono delle differenze tra i figli biologici e quelli adottati ma sono gli adulti che si rendono differenti nelle competenze genitoriali, ove i genitori adottivi vivono una sorta di “vuoto della somiglianza” che cercano di compensare in altri modi, commettendo in alcuni casi dei gravi errori.
Adottare un bambino è, nel nostro Paese, un processo irto a causa della burocrazia, dei requisiti personali e genitoriali dei candidati, dalla nazionalità di origine del minore e debbo dire anche da una mentalità italica ancora vincolata a dei pregiudizi che rallentano o impediscono del tutto l’adozione di molti bambini. Tema su cui tornerò a parlare in un futuro articolo.
Accade quindi che una coppia di genitori maturi ed economicamente strutturati, dopo alcuni anni dall’adozione di un bambino, incontrato quando questi aveva già 5 anni vissuti traumaticamente, chiaramente non italiano per i suoi tratti somatici e per il colore della pelle, abbiano una crisi tale da destabilizzare non solo la coppia ma l’intera famiglia perchè il figlio adottivo che ora ha 11 anni è sostanzialmente incontrollabile a tal punto da non sapere letteralmente più che cosa fare con lui.
In questi casi, non diversi da quelli che avvengono nei bambini delle famiglie tradizionali, si attivano dei meccanismi invece differenti i quali creano la tipica difesa di chi si ripete da un lato che “non è mio figlio naturale e non conosco le eventuali patologie psichiche della famiglia di origine” quindi chissà che non abbia i segnali di una qualche forma di “pazzia genetica” e, dall’altro lato, nel figlio adottivo nasce la spinta al bisogno identificativo verso la propria origine, verso quei genitori naturali che tanto avrebbe voluto essere diversi da quelli con i quali ora vive il conflitto.
In realtà le dinamiche evolutive sono simili in tutti i bambini e gli adolescenti, non dipendono dal legame di sangue per capirci ma mutano nella gestione del conflitto da parte degli adulti, le cui competenze genitoriali fanno appunto la differenza.
“Il vuoto della somiglianza” al quale ho fatto riferimento, è una lacuna che alcuni genitori adottivi si portano silentemente dentro, quando certamente sanno che non vi sono nè tratti somatici in comune nè delle somiglianze “caratteriali” se, non, quando l’adozione avviene nei primissimi anni di vita dei bambini facilitando una sorta si adeguamento “caratteriale” mentre, in questo caso, il figlio è stato adottato a 5 anni di età dopo aver vissuto dei traumi importanti nel corso della sua prima evoluzione, causati sia dalla instabilità del paese di origine che dalle caratteristiche relazionali con i genitori naturali.
Non basta perciò tanta buona volontà e tanto amore da donare per compensare le numerose lacune in entrambe le parti, come non basta “adeguare” il figlio adottivo a delle regole che certamente egli impara nella ordinaria convivenza familiare e sociale ma, poi, di fronte all’innesco di un qualche conflitto la reazione è diversa e, agli occhi dei genitori, appare “non somigliante” alle loro regole, al loro mondo, alla loro attitudine.
Quando si avverte tutto questo possono accadere due cose, la prima sprona gli adulti a crescere e prendere pienamente coscienza che oltre al figlio hanno adottato tutto ciò che il bambino ha vissuto, esperienze per le quali occorre molto più del solo amore ed anche un sostegno tecnico esterno, la seconda è invece il distacco totale dalla adozione, quasi un rifiuto difensivo che inquina la relazione genitori-figlio con tutte le negative conseguenze per il minore; diventato ora qualcosa da sopportare e non più qualcuno da crescere.
Questo accade anche di fronte ai genitori più bravi e pieni di amore per il figlio adottivo, perchè è una difesa inconscia che rinforza le debolezze e non protegge altro che la sofferenza patita purtroppo da tutti.
I genitori adottivi sono esattamente come tutti gli altri, con i loro personali conflitti non elaborati, alcuni leali altri libertini, uniti dal sentimento oppure semplicemente dalla reciprocità degli egoistici bisogni, capaci o meno di porsi in discussione ed in grado perciò di sapere o non sapere affrontare un problema uniti, senza che il problema stesso ponga a rischio la coppia.
Un bambino adottato che avverte così non solo un disagio che non riesce a comprendere, il quale diventa motivo di conflitto tra i genitori adottivi, ma anche il distacco difensivo da parte dei genitori stessi e patisce una regressione importante che richiama il trauma dell’abbandono in molti casi sommando disagio al disagio.
Oltre a questo, proprio il conflitto in essere alimenta “l’identificazione nelle non somiglianze”, interpretate ora come “appigli” autoprovocatori o giustificativi per nulla cambiare, ove chi ne subisce le maggiori conseguenze traumatiche è certamente il minore.
In assenza di un serio supporto tecnico in favore dei genitori adottivi, questi sono lasciati al loro destino con un carico emotivo importante nel confronto con un figlio loro che non è loro, il quale lo è sotto il profilo della responsabilità e dei doveri genitoriali che si sono assunti con l’adozione, ma non lo è nella loro percezione emotiva e relazionale condizionata dai meccanismi difensivi attivati.
Dire che il bambino adottato non adotta le regole della famiglia adottiva, significa tutto e nulla allo stesso tempo, ove per tutto intendo l’errore compiuto da molti genitori adottivi ed il nulla rappresentato dalla percezione del minore di fronte ad un mondo al quale “deve adeguarsi” nella maggior parte dei casi.
La maturità genitoriale è un requisito che non può essere immediatamente confermato da un preventivo screening valutativo, perchè molti non sono mai stati genitori prima, perciò il riferimento è la qualità psicoemotiva e relazionale del profilo individuale e della coppia nell’esame dei coefficienti che soddisfano i requisiti per l’adozione, spesso rinforzati da un consistenza patrimoniale contro una seria “formazione” alle complicanze che una adozione potrà rappresentare una volta concluse le pratiche amministrative, ovvero la necessità di valutare profondamente la capacità di gestire un conflitto da parte degli adottanti.
La cultura adulto-centrica è un altro ostacolo che si frappone inoltre tra il bambino adottato e il suo “dovere” di adottare delle regole nella famiglia di accoglienza, nella quale crescerà come un figlio a tutti gli effetti psicoemotivi e relazionali e non solo amministrativi, gravato dal peso di una “pretesa” da parte degli adulti di un adeguamento a delle regole non sempre compatibili con le esigenze evolutive dei minori.
I genitori adottivi hanno in realtà una maggiore responsabilità rispetto a quelli naturali, ai quali si richiede l’assunzione della consapevolezza di saper mediare, di saper gestire e di saper risolvere i conflitti che il figlio adottivo potrà rappresentare per mille diverse ragioni e, non, credere che il minore debba sempre e solo essere felice perchè è stato tolto da una situazione terribile trovando ora una famiglia ed un futuro, alla quale manifestare la gratitudine “non creando problemi” e quindi adottandone le regole sic et simpliciter.
Adottare non significa solo riconoscersi nei genitori adottanti e nel minore adottato che assume così il cognome della famiglia e ne diventa “membro” a tutti gli effetti di legge, perchè questo è solo un punto di partenza per, poi, farlo diventare “parte” della famiglia adottiva e, proprio questo, è tutta un’altra storia.
Assistere i genitori adottanti nel momento delle fasi selettive e valutative dei requisiti per “filtrare” il minore in stato di adozione, fino a farlo diventare “membro” del nucleo familiare, significa anche offrire un continuum tecnico e di sostengo per facilitare il farlo diventare “parte” della famiglia senza costringere tout court l’adottato ad adottare le regole degli adottanti.
La pedagogia è una risorsa in questo senso sia per i genitori adottivi che per il minore adottato, il quale patisce una sofferenza che non è in grado di gestire se non con le classiche reazioni difensive tipiche delle fasi evolutive dell’età cronologica, con l’aggravante della latente percezione psicologica della “non somiglianza” che, proprio nei momenti di conflitto, tutte le parti in causa attivano come meccanismo che si somma alle difese.
I genitori adottivi vanno elogiati per la scelta che compiono coscienti che non stanno solo soddisfacendo una propria esigenza, perchè non è una azione compensatoria le ragioni per le quali non possono avere dei figli naturali bensì è un atto di amore verso il bambino in stato di adottabilità. Atto che necessita, oltre all’amore, anche delle competenze genitoriali da rinforzare sempre e, soprattutto, nei momenti di conflitto.
Sara