In questo mestiere è capitato spesso di ascoltare le parole di alcune madri nel corso del confronto pedagogico riferibili agli agiti dei mariti e dei padri dei loro figli, tali da disegnare un quadro di violenze fisiche e psicologiche oppure un ossessivo controllo della vita delle mogli e dei bambini fino a quelle condotte configurabili nelle più gravi ipotesi di reato in danno dei minori.

Questo è uno dei motivi per cui ho scelto di rendere gratuito l’accesso alla professionalità della pedagogista, permettendo così alle donne in difficoltà “di non lasciare traccia” come quella di un pagamento per esempio.

Sia ben chiaro che non ho alcun titolo per comportarmi come una “poliziotta” e non è nè mio interesse nè parte della mia professione se, non, nei casi in cui posso essere nominata consulente ausiliaria di polizia giudiziaria da parte delle procure o delle loro aliquote di PG e, anche in questi momenti, non sono una “poliziotta” ma una pedagogista che aiuta il lavoro di chi è delegato ad una indagine.

Accade, ed è accaduto in passato, di ascoltare dei racconti dalle mogli e dalle madri con cui mi interfaccio con dei contenuti riferibili a dei fatti gravi e certamente pregni di una rilevanza penale perchè posti in essere contro dei bambini per esempio, momento in cui è opportuno sapere cosa fare e come gestire le informazioni in tal senso per aiutare al meglio chi mi chiede sostegno ma, anche, per non trasformarmi in una specie di “agenzia delle denunce” che non sono e non voglio essere. Si pensi solo a quante donne raccontano di violenze e di abusi che, poi, si dimostrano invece essere un disperato bisogno di attenzioni, un malandrino metodo per sbarazzarsi di un marito da cui separarsi velocemente o solo un enorme castello di paure e di ansie compresse in una formula di immediato impatto che chiaramente catalizza tutte le attenzioni possibili.

Ascoltare nelle parole di una madre la costruzione di un presunto abuso in danno di un figlio da parte del padre o del nuovo compagno rappresenta una ipotesi di reato gravo ma, personalmente e professionalmente, non ho le risorse per valutarne il peso o la realtà al netto degli evidenti segnali patologici e non ho nemmeno un “poliziotto” oppure un avvocato a disposizione per confrontarne i contenuti. Non è questo il mio lavoro.

Lavoro che come ho detto include però la possibilità di ricevere una notizia di reato, perseguibile d’ufficio o meno che sia, la quale coinvolge dei bambini in fatti gravi e pur nella riservatezza della consulenza e nel rispetto della privacy non sono in realtà strettamente vincolata ad un segreto professionale da usare come scudo, soprattutto contro la mia coscienza, perchè andare a letto dopo aver ascoltato le grida di aiuto di una madre che mi racconta delle violenze che patisce insieme ai figli da parte di un marito aggressivo e “controller” non è facile.

Che fare, quindi, in questi casi?

E’ chiaro che l’esperienza mi consente di aver strutturato dei filtri proprio per non ritrovarmi preda di ogni strumentalizzazione o coinvolgimento in faccende che vanno oltre i confini della mia professione ma, può accadere, di prendere atto di essere di fronte ad un serio pericolo per dei bambini a rischio ascoltando le parole di una madre descrivente dei presunti fatti gravi e, in quel momento, chiedo alla donna il permesso di registrare la telefonata dicendole che potrebbe essere inoltrata alle autorità competenti in materia di protezione dell’infanzia per ogni, loro, eventuale seguito. E’ chiaro che se comprendo un immediato rischio in danno di un minore chiamo la polizia come farebbe qualunque altro cittadino, ma la consulenza pedagogica è cosa diversa da un generale allarme di questa natura.

I professionisti che lavorano con “la persona umana” come gli psicologi ed i pedagogisti hanno molte più opportunità di imbattersi in fatti di competenza delle autorità giudiziarie oltre il disagio che trattano nel loro mestiere, ragione per la quale hanno degli strumenti di tutela della loro professione, chi nel segreto chi invece nel supporto di una rete legulea associativa per esempio, tale da proteggere loro stessi sia dalle strumentalizzazioni che dalle rivalse oppure da una propensione personale a confondere il mestiere trasformandosi appunto in dei “poliziotti” o degli investigatori.

Occorre per questo sapere e far sapere molto bene i confini della professione di fronte ad una donna che chiede un sostegno quando questa parla di eventi che coinvolgono i figli in fatti di violenze ed abusi posti in essere dal marito, dal padre o da altre persone, dicendo di non avere la forza o le opportunità di denunciare come avviene in molti casi, per paura o per ignoranza, per sfiducia o per insicurezza, restando così una “complice passiva” delle condotte dell’uomo.

Il confronto ed il sostegno pedagogico consente di rinforzare queste donne anche nel chiedere aiuto e non solo nel sopravvivere in una condizione di estremo disagio, ponendole nelle condizioni di avvalersi di reti già strutturate e tali da veicolare le denunce in un modo migliore di quanto possa fare una semplice telefonata in questura da parte di una pedagogista.

Reti che ogni professionista conosce o dovrebbe conoscere proprio per non ritrovarsi egli stesso “preda” di quelle situazioni con cui addormentarsi la notte per fare i conti con la propria coscienza.

Perchè occorre da parte mia e dei colleghi in generale, la piena consapevolezza della materia che trattiamo, ovvero anche il disagio di molte donne, di tante madri e di troppe mogli vittime di una relazione difficile, dolorosa e con tutti i rischi eventuali in danno dei figli minori.

Non possiamo farci trovare impreparati quando nel corso di un colloquio emergono delle notizie gravi, come non possiamo trasformarci in un contenitore di denunce sterili o costruite sulle sole paure ove non delle chiare patologiche fantasie.

Scriverò in futuro dei vantaggi e delle criticità delle reti associative e pubbliche per la tutela dell’infanzia, ricordando in conclusione di questo articolo l’importanza di offrire alle donne in difficoltà ogni opportunità possibile per esprimere il loro disagio il quale, in rari casi, contiene dei fatti penalmente rilevanti.

La pedagogia solidale che promuovo con il mio piccolo progetto è un esempio per far emergere le richieste di aiuto di molte donne costrette a rinunciare ad un sostegno perchè temono che, pagando una consulenza, lasciano una traccia sui movimenti bancari o sulle spese di casa ipercontrollate da quei mariti ossessivi e pericolosi dai quali occorre distaccarsi o chidere appunto un aiuto tale da ridurre i disagi.

Sara