
Recentemente mi hanno chiesto perchè non frequentiamo la chiesa locale o le attività della parrocchia e dei gruppi di preghiera sul territorio, non come rimprovero quanto per la curiosità di capire i motivi della nostra assenza nonostante tutti i sacramenti ricevuti.
Non ho risposto avvalendomi della facoltà di non rispondere, perchè la chiesa e la religione possono essere cose diverse oppure per mille altre ragioni per le quali la tradizione cattolica in cui siamo tutti cresciuti rimane nel tempo un riferimento ma non più un culto da praticare secondo le metodiche classiche ed è difficile da parte mia parlare della nostra esperienza, limitandomi perciò a scrivere questo articolo i cui contenuti offrono un confronto idoneo per comprendere la posizione di molti bambini tra la tradizione ed il credo.
Bambini in generale che, diversamente dal passato, hanno meno obblighi di frequenza rispetto alla mia generazione o a quella di mio marito, quando la parrocchia rappresentava una delle poche opportunità di socializzazione e di sport, con il paradosso nel caso di Fabio durante la sua infanzia livornese di giocare nella squadra di calcio dei frati cappuccini e di bere la spuma al circolo del PCI di fronte alla chiesa ma, mio marito, è una caso a parte su cui scriverò ancora.
La religione nel nostro Paese ha da sempre avuto un ruolo formativo ed educativo importante, spesso ingerente, al quale adeguarsi o a cui ribellarsi oltre a chi vive invece un perfetto equilibrio nella propria forte fede in nome della quale cresce i figli.
Il quesito storico è quello di chi interpreta la fede dei genitori come “imposta” ai figli, domandandosi se questo non sia una sorta di “politica” clericale trans-generazionale, oppure una mera tradizione sociale sia per non perdere un ruolo che per acquisire tutti i vantaggi provenienti dal potere dei preti, tra raccomandazioni per la vincita di un concorso fino alla mediazione della reputazione sociale da tutelare contro “la gente” ed il peccato.
Ma è, anche, una piena identificazione dei propri valori di vita e di fede che molti genitori semplicemente esprimono nel modello educativo verso i figli, ai quali trasmettere il meglio senza camuffare i problemi interni ad una chiesa spesso protesa a nasconderli sotto il tappeto.
Ogni famiglia vive in modo intimo la propria fede e la manifesta nella condivisione dei rituali pubblici, oltre ai sacramenti, rispettando la tradizione oppure assume una forma più riservata nel praticare la fede anche senza partecipare alla comunità.
Altri invece se ne distaccano nel corso della evoluzione assumendo una coscienza più pratica dei fatti della vita e della scienza, altri ancora rinnegano la chiesa proprio per i tanti scandali in essa insorti fino a chi invece è ateo da sempre e cresce i propri figli lontano dagli ambienti dei crocifissi, dei peccati e delle colpe.
Per molti la fede rappresenta un’ancora di salvezza, per altri solo una delega in conto terzi delle proprie responsabilità, in un Paese come il nostro nel quale i conflitti tra il credo ed il vivere assumono sovente i colori della ipocrisia dell’immagine da mostrare rispetto alle reali condotte, eventualmente da perdonare con l’espiazione del peccato.
Ritengo come madre e soprattutto come chi pratica la scienza pedagogica che i bambini meritano la verità delle emozioni ed il rispetto della loro intelligenza emotiva, da coltivare nel corso della crescita nei modelli educativi pari alle competenze genitoriali anche con il coraggio delle emozioni stesse per raggiungere quella verità che rende tutti, effettivamente, liberi.
Sara