Ieri mia figlia Edda, appena tornata da scuola, mi ha chiesto se fossimo ancora “stranieri” perchè una sua compagna di origine nord africana le ha chiesto i motivi della conoscenza di qualche parola di arabo, credendo che anche Edda fosse perciò “estera”.

In realtà la nostra numerosa Famiglia ha viaggiato per molto tempo in Italia e all’estero sin dal 2010 fino al radicamento in questa remota borgata del ponente ligure, motivo per cui Edda ed i suoi fratelli sono serenamente abituati a sentirsi stranieri e ad accogliere chi è straniero, perchè cresciuti in un clima “expat” e lontani dai tipici schemi mentali che fanno del significato identitario una identità di governo della vita pubblica e delle relazioni sociali.

Sono italiani ed amano esserlo specialmente oltre confine, ben sanno quanto il loro padre per esempio ha fatto per il suo Paese e per la Bandiera che lo rappresenta ma, non per questo, debbono sentirsi dei “guardiani” di quei confini che confondono l’identità con il passaporto, altrimenti si confonde anche la storia delle migrazioni e delle conquiste dei popoli e dei territori, a causa della quale scade il valore identitario riconosciuto in quella presunta italianità altresì confusiva proprio per le tante dominazioni subite e per i percorsi storici che hanno portato a definirci oggi come italiani.

Io per esempio sono sarda ed ho un tradizionale legame con la mia Isola Madre, tutta la mia famiglia di origine è secolarmente sarda ma vi sono in essa delle persone con gli occhi neri azzurri e verdi, carangioni scure o di porcellana, altezze differenti e non solo quei tratti somatici un tempo squisitamente attribuiti alla iconografia dei sardi.

Mio marito Fabio ha la madre di Tarquinia la cui famiglia è accertata essere di chiara origine etrusca, mentre suo padre è solo cresciuto a Tarquinia, nato a Roma da padre abruzzese con discendenze marchigiane fino al “filius matris ignotae” che ha caratterizzato la nascita di un remotissimo avo e chi forse addirittura generato da un “servus ad pedes” dell’antica Roma.

E’ importante quindi non confondere i bambini con una inutile pedagogia identitaria, la quale non ha alcun valore educativo o un riferimento storico delle proprie radici ma solo un interesse politico nel bacino del consenso.

E’ inoltre importante non confondere i disagi causati dalla immigrazione clandestina con le opportunità che ogni persona umana offre a sè stessa ed alla propria famiglia per un futuro migliore, anche emigrando per motivi cosiddetti economici o di sopravvivenza dalle guerre e dalle tirannie, proprio come hanno fatto a suo tempo gli stessi italiani; emigrazione oggi rinnovata dalla cosiddetta fuga dei cervelli verso i paesi che offrono una più corretta accoglienza delle intelligenze.

La pedagogia identitaria rischia infatti di essere solo uno strumento selettivo sterile, utile a coagulare l’ignoranza e, non, ad amministrare il fenomeno della immigrazione che certamente il nostro Paese soffre in ogni aspetto della vita di comunità, anche nella scuola.

I bambini non hanno bisogno di divisioni sotto nessuna forma ma inevitabilmente sono i primi a classificarsi nelle differenze tra i gruppi che formano “gli arabi” invece dei “latini” oppure degli altri studenti costretti a radicarsi alle proprie origini per superare il disagio del “nulla” che rappresenta il non essere amministrativamente italiani e discriminati in base al loro aspetto fisico, alla religione, alla conoscenza o meno della lingua italiana ed alle altre variabili che fanno del nostro Paese il primo approdo per gli emigranti e l’ultimo per la capacità di amministrarne i flussi, anche a causa di una strumentale geostrategia attuale che usa la spinta migratoria come risorsa di politica estera, lasciando i vari governi di turno italiani soli nel gestire un fenomeno di proporzioni ben più ampie dei nostri natuali confini.

La propaganda della italianità genera nei bambini la percezione dei “diversi” da loro e, questo, è il peggior esempio di integrazione all’interno di una scuola la cui multietnicità è sostanzialmente solo imposta e non regolata, tanto che la crescente presenza di studenti stranieri che non parlano italiano rischia di limitare la qualità formativa, perchè una cosa è rispettare il giusto diritto alla istruzione di tutti i bambini e, un’altra, è la capacità di organizzarne l’inserimento a scuola ove manca un serio percorso propedeutico idoneo per non ridurre i diritti altrui e per non stimolare l’isorgenza di una esigenza identitaria difensiva.

Occorre perciò saper amministrare l’attualità sociale per organizzare il prossimo futuro senza rifugiarsi negli stimoli identitari di un passato terribile, come non serve a nulla lo sventolio delle bandiere di origine, magari ex coloniali, in assenza di una opportunità di inserimento che spinge gli immigrati a riconoscersi in vittime di un razzismo in realtà inesistente ma comunque latente nell’ignoranza che lo caratterizza.

Edda è una bambina di non ancora 8 anni che non avverte la presenza delle sue compagne straniere come una invasione, mentre alcune di loro sono invece costrette a clanicizzare la propria presenza per difendersi dall’ignoranza di chi le vuole per forza diverse dalla italianità dei propri figli e, questo, è il reale pericolo che dobbiamo saper prevenire, ovvero la clanicizzazione dell’infanzia in etnie e provenienze.

Dovremmo per questo ben riflettere sulla politica identitaria che gratifica solo gli schemi mentali confinati dall’ignoranza, dai quali conviene emigrare per non cedere alla tentazione del nemico offerto alla massa utile a compensare i disagi individuali e le difficoltà collettive anche a causa di una immigrazione clandestina caratterizzata da un elevato indice di criminalità, in un Paese nel quale le mafie nostrane hanno ormai delegato i reati d’ambiente alla criminalità straniera per dedicarsi alla conquista della politica e della alta finanza.

i miei tanti amici sardi che hanno acquisito una cittadinanza straniera dopo essere emigrati all’estero sono i primi a sventolare la bandiera dei quattro mori, ma sono anche i primi a riconoscersi come migranti che si sono offerti un futuro diverso per loro e per loro famiglie, senza per questo sentirsi dei “traditori della Patria”.

Un governo serio è quello che consente ai suoi cittadini di non lasciare il Paese rendendolo un luogo in cui coltivare futuro e benessere e, non, uno Stato che eregge quei muri che, bene ricordarlo, contengono sempre due libertà da ogni lato.

Sara