Vi è ancora nel nostro Paese una diffusa mentalità in base alla quale coloro considerati poveri sono una sorta di incapaci o di falliti, persone classificate come diverse, appartenenti a delle classi sociali lontane dal normale quieto vivere dei ben-pensanti e di chi ha organizzato la propria vita sul benessere e sui vantaggi da questo provenienti in generale, anche investendo nella immagine del benessere stesso come icona di prestigio sociale.

Persone alle quali eventualmente donare la propria solidarietà o i vestiti usati da parte di chi profondamente crede in questi gesti o da chi più semplicemente se ne veste, perchè la solidarietà offre un credito morale sempre spendibile.

La miseria è addirittura considerata la colpa di chi pur lavorando non riesce a sopravvivere e, magari, si permette anche di fare dei figli oppure di mirare alla acquisizione di quelle opportunità che molti danno invece per scontate, come un lavoro più garantito oppure una casa in affitto.

Come tutto ciò che ci spaventa tendiamo difensivamente a negarlo, a rimuoverlo o proiettarlo altrove, fino a de-umanizzare chi rappresenta lo spettro delle nostre paure ed uno dei maggiori timori delle famiglie italiane è quello della impossibilità di mantenersi e di mantenere i propri figli, o di vedere ridotti tutti i vantaggi del benessere materiale goduto.

Siamo stati abituati a riconoscere le sacche della povertà come espressione di chi della povertà stessa identifica il proprio stile di vita, spesso simulando una miseria invece non tale oppure ponendo in essere quelle condotte alibizzate dalla povertà, come l’accattonaggio o i reati d’ambiente e di opportunità.

Ci siamo dimenticati di quanto i nostri padri e nonni ci raccontavano, cresciuti durante la guerra e nell’immediato dopoguerra, vivendo la povertà assoluta e la miseria anche morale di un Paese distrutto, spinti non solo alla sopravvivenza ma anche alla ricostruizione della nuova Italia che nei decenni successivi ha consentito alle nuove generazioni quel benessere talvolta rappresentato dalla collezione del superfluo, oggi caratterizzato da un consumismo quasi compulsivo.

La povertà è una opportunità politica, un bacino di consenso ed una sacca di dissenso sempre utile ad una politica che sembra aver perduto il senso della persona umana, ormai considerata solo un oggetto strumentale di voto da amaliare ed eterodirigere per rinforzare la politica stessa e, non, una società che vive anche il disagio delle cattive, ove non pessime, gestioni pubbliche degli interessi della collettività.

Le famiglie in Italia sono tali anche se formate da persone provenienti da altri paesi, spesso del cosiddetto terzo mondo, migranti economici in gran parte presenti nelle varie forme legali o in modo del tutto clandestino, tanto che assistiamo alla nascita di una nuova guerra tra poveri ben cavalcata dalla politica identitaria che necessita sempre di un nemico da offrire alla massa.

La povertà assume in alcuni momenti degli aspetti anomali, dai quali prendiamo atto che esistono persone che pretendono dei sussidi dimostrando sulla carta di non arrivare a fine mese ma, poi, hanno delle belle auto, dei telefonini moderni e non si fanno mancare i simboli del benessere oppure, al contrario, assistiamo alla paradossale dissimulazione della miseria per timore di perdere i figli o di ritrovarsi i servizi sociali in casa, questo soprattutto da parte di chi non appartiene alla povertà mi ci si è ritrovato per ragioni diverse dall’essere “incapace” e vive il peso della vergogna e della condanna sociale contro i poveri.

I poveri danno fastidio, spaventano, succhiano risorse pubbliche senza dare nulla in cambio, rubano anche l’aria che respirano direbbe qualcuno, fino a influenzare l’ignoranza che tale rimane seppur arricchita e, come tale, eterodiretta dalle politiche etniche ed identitarie, dalle mentalità a schemi ridotti portatrici sane dell’arroganza che nasce dall’ignoranza stessa.

Viviamo in un sistema sociale autarchico ed autoreferenziale, il quale prevede la povertà ma poco agisce contro la miseria in termini di sviluppo economico e non solo di assistenzialismo; la miseria è infatti il vero spettro di una collettività che si scontra tutti i giorni con il paradosso di un benessere diffuso e di un malessere spesso solo vittimistico, in un Paese che poco investe in formazione e ricerca ed ancor meno riconosce le competenze, restando vincolato alla mentalità della raccomandazione e della furbizia, confondendosi tra l’intelligenza e la scaltrezza e ritrovandosi alla fine ad essere gestiti da una politica dei cani e dei ruffiani e non sostenuta dalle vere intelligenze e dalle reali competenze, i cui risultati si vedono nella mediocrità che gestisce la vita pubblica considerando, però, la miseria, un fatto privato.

Sono molte le famiglie costrette a chiedere aiuto alle proprie famiglie di origine, ai nonni quindi che hanno i requisiti per una firma di garanzia o solo per mettere il pranzo a tavola per i nipoti, oppure ai presidi sociali pur lavorando e producendo guadagno oltre a pagare le tasse, con il peso di quella vergogna della povertà che caratterizza ancora molti italiani.

La povertà non è una colpa ne una patologia del nullafare, è una situazione che può essere mutata ma dalla quale è difficile emergere in tempi brevi e medi perchè si auto-alimenta ove è impossibile uscirne in assenza dei requisiti privati dalla povertà stessa e per la quale, ancora un paradosso del nostro Paese, l’onestà personale rappresenta un misvalore.

Rischiamo quindi, come dicevano i nonni, di essere amministrati solo da due categorie di persone, i primi sono i ricchi che mandano i poveri a combattere le loro guerre ed i secondi sono i poveri che si sono arricchiti, odiando tutti coloro che gli ricordano il piatto nel quale un tempo non avevano da mangiare.

Sara