
L’approccio pedagogico alla PTSD (Post Traumatic Stress Disorder) sindrome da stress post traumatico è molto diverso da quello psicologico e psichiatrico, perchè non cura in alcun modo il disagio tramite un metodo terapeutico o un presidio farmacologico, che non sono strumenti della pedagogia, la quale si concentra invece sulle risorse della persona da cui estrarne anche quelle residue.
La PTSD non è un disagio di esclusiva pertinenza dei militari, dei reduci e di chi opera con le armi in un contesto ad elevato rischio come la polizia ed i carabinieri, ma colpisce tutti coloro che hanno vissuto un evento traumatico effrattivo ed importante per cause e situazioni diverse da un teatro bellico o dalle azioni di polizia.
Mi concentro con questo odierno articolo solo sulle uniformi, ma scriverò in futuro su questo argomento in modo più esteso.
Inizio con il dire che la PTSD non caratterizza chi è la persona che ne manifesta i disturbi ma che cosa ha vissuto quella stessa persona. Purtroppo per chi vi si confronta nei momenti del disagio è molto difficile riconoscere questo importante concetto, vivendo di fatto il rapporto 1:1 con chi patisce la PTSD nelle sue forme generali e più specifiche.
Diversamente dagli USA ove hanno delle reti ormai ben organizzate per sostenere i reduci, sia governative che associative, nel nostro Paese si tende ancora a nascondere il problema da parte di chi lo soffre temendo un declassamento degli incarichi operativi o un impedimento per la carriera, oltre ad un approccio sanitario ancora riferito alle classificazione diagnostiche dei singoli disturbi rispetto che una polivalente sofferenza riconoscibile nella specificità della PTSD.
Stati ansiosi, ricordi intrusivi, sbalzi di umore, ipervigilanza, comportamenti antisociali, dipendenze, violenza auto ed etero diretta, suicidi ed omicidi sono negli USA quanto la letteratura in materia ci riporta sin dai tempi della guerra del Viet Nam, mentre in Italia assistiamo sempre più frequentemente ai suicidi nei comparti delle forze armate e di polizia e una emersione del disagio personale, relazionale ed intra-familiare di coloro che hanno vissuto delle esperienze belliche oppure ad elevato rischio, tramite la violenza domestica, l’incapacità di organizzare gli impegni, la repentina de-strutturazione degli assetti lavorativi affettivi e sociali fino al rifugio nell’isolamento autoprovocatorio.
Il reduce che soffre della PTSD rappresenta non solo una vittima di quel che ha vissuto ma, anche, una sorta di “bomba sociale” perchè quando esplode si trasforma nella persona il cui addestramento si riversa nelle azioni violente che potrà porre in essere o in quelle condotte prive di un uquilibrio psicoemotivo non immediatamente riconoscibile in qualche diagnosi nota, per questo è considerato “non altrimenti classificabile”.
Vi è però una sostanziale differenza in quel che hanno vissuto tanto da renderli unici nella loro tacita sofferenza, costretti anche a camuffarla sia per quanto ho accennato all’inizio che per una loro incapacità di accettarsi come soggetti ora deboli, vulnerabili, sofferenti un disagio che non sanno immediatamente riconoscere perchè attiva inoltre dei meccanismi difensivi inconsci.
La PTSD nei reduci rappresenterà un problema sociale in un prossimo futuro più di quanto i suoi segnali siano già evidenti nella attuale società, proprio per aver vissuto un conflitto a fuoco in un teatro di guerra, convissuto con la morte quotidianamente in un contesto di ipervigilanza continua, gestito l’emozione della paura anche contro la stessa psicologia del militare che nega ogni sconfinamento oltre la sua immagine operativa, altrimenti scade il guerriero nel quale si deve inevitabilmente identificare se desidera sopravvivere.
Tornare a casa per ritrovare la semplicità della vita ordinaria, senza più lo stimolo dell’adrenalina, del coraggio da conquistare contro la paura, dell’ardimento identificativo, costringe molti a rifugiarsi in un settore tipico dei veterani, ora associativo ora invece a rischio, laddove il vincolo con l’immagine in uniforme o nei fregi supera il solo attaccamento al reparto ed alla fratellanza di chi vive delle esperienze simili.
La frustrazione vissuta indirizza verso ogni canale compensatorio delle cattive emozioni, della difficoltà di pensare, della impossibilità a fare la cosa giusta alimentando in questo modo il vortice della frustrazione stessa fino alla sua implosione, o alla sua esplosione.
L’ascolto pedagogico dei disagi dei reduci e dei veterani inizia con l’assenza di qualsiasi elemento giudicante la persona, concentrandosi invece su quello che la persona ha vissuto e, che, ha assunto in essa una forma intrusiva non più tollerabile.
Il reduce si sente incompreso da parte anche del proprio partner molte volte, contro il quale sfoga il primo stadio del suo disagio, innescando così il terribile meccanismo del silenzio camuffato da una apparente serietà, quando in realtà è solo un silente dolore.
La più elevata forma di coraggio è quella di sapere quando chiedere aiuto, consapevole il reduce che proprio per la capacità bellica che rappresenta, rischia di fare dei seri danni, quando il suo dolore esplode.
Sara