
Nei giorni scorsi mi hanno informato che mia figlia Matilde non potrà praticare delle attività sportive di suo interesse perchè affetta dalle complicanze di un danno assonale al corpo calloso del cervello, come tale “a rischio” anche in presenza di una certificazione medica che in buona sostanza consente l’accesso agli sport amatoriali e non necessariamente agonistici ma, il problema, consiste nella paura che possa farsi male perchè la sua testa merita certamente delle tutele contro dei colpi o delle cadute ed è questa la realtà effettiva che si oppone ai desideri.
Matilde è pienamente consapevole del trauma cranico dal quale si è sviluppato il danno assonale che, fortunatamente, non manifesta ad oggi quelle tipiche escursioni di questa lesione al cervello invece in altri bambini fortemente invalidante ma è altresì cosciente che i suoi assoni danneggiati sono “ad orologeria”, come tali una minaccia sempre presente e monitorati nei modi in cui riusciamo a farlo, senza ansia e soprattutto senza pensieri catastrofici ma nemmeno con l’arroganza del credere che “ci è andata bene” e quindi ci possiamo permettere tutto.
Dico che ci è andata bene perchè mia figlia non ha una certificazione di disabilità in stile 104 per capirci ma solo una diagnosi che descrive la lesione al cervello nel danno assonale periodicamente sottoposto a dei controlli strumentali e professionali, proprio per osservare se vi sono dei peggioramenti rispetto alle ridotte possibilità di un miglioramento; questo nel paradosso che nonostante la seria lesione diagnosticata ma non ancora classificabile negli handicap rubricabili nella burocrazia delle disabilità, è a tutti gli effetti una ragazzina normodotata che conduce una vita al pari di tutti i suoi coetanei.
Sia io che mio marito Fabio, superati i primi anni di attenzioni particolari e di specifiche attività psicomotorie ed adottato per un periodo lo strumento della istruzione parentale, abbiamo nell’autunno scorso deciso di immettere Matilde nell’ordinario percorso scolastico presso un tradizionale istituto nel quale frequenta la prima media con profitto e serenamente ma, sempre, con la minaccia degli assoni danneggiati in tutto il loro spettro e con la assunzione di quelle attenzioni per proteggere la testa contro ogni forma di colpo o caduta, senza per questo privarsi del vivere la classe ed il gioco, mentre per le attività sportive anche agonistiche attenderemo ancora del tempo per capire come poterle permettere di coltivare le sue passioni in tal senso.
Quando capita di parlare del problema di Matilde di fronte a chi non lo conosce, la prima risposta è la classica espressione che recita “ma, sembra normale” ed in effetti la lesione che l’ha colpita non l’ha resa “diversa” se non in alcuni minori aspetti a noi genitori evidenti; talvolta incontriamo dell’imbarazzo ed altre volte una vera reciprocità emotiva ma, non raramente, anche i sintomi dell’ignoranza verso il mondo della disabilità in generale e delle lesioni cerebrali in particolare.
Un figlio “handicappato” come si diceva un tempo, oppure abilmente diverso come usiamo invece dire noi, è un soggetto interpretato e trattato diversamente perchè considerato diversamente abile in ragione delle sue differenti necessità rispetto alla struttura sociale che interpreta i disabili come “oggetti” a cui adeguare un sistema normodotato, tanto che si usa dire “bisogni speciali” per adeguare le misure pubbliche in ogni suo aspetto alla portata di chi vive una disabilità fisico motoria, sensoriale ed intellettiva.
La società in cui viviamo tende a negare tutto ciò che è diverso contro quel “normale” compatibile con i confini mentali delle persone e con la gestione pubblica delle amministrazioni e, proprio i disabili, sono dei problemi non piccoli con cui fare i conti, aggravati dai genitori agguerriti per difenderne i diritti contro le discriminazioni, l’incuria ed i tanti progetti che sulla carta sono meravigliosi (specialmente per attrarre finanziamenti) poi invece scadenti o trascurati nella messa in opera con il risultato del mancato servizio e della carente attenzione verso “i bisogni speciali”.
Il meccanismo di negazione è presente anche negli stessi genitori che scoprono la disabilità di un figlio dalla nascita, nel corso dell’evoluzione oppure causata da un trauma cranico per esempio, i quali non sono sempre capaci di affrontare lo stravolgimento della propria vita, delle proprie aspettative ed il carico della paura che pesa su chi non ha inizialmente idea di cosa e come fare oltre l’amore per i figli, ora portatori di handicap.
Al netto dei meccanismi difensivi occorre però avere il coraggio di approcciarci alle disabilità senza adottare il classico vittimismo che stimola solo la vittimizzazione del bambino “diverso”, la quale è del tutto nociva sia per il disabile che per la sua famiglia, mentre è consigliabile investire nella educazione sociale al mondo dell’handicap proprio per non considerarlo un qualcosa di oggettuale da adeguare alla società normodotata, oppure al quale offrire delle misure speciali anche solo per fargli superare una auto parcheggiata ignorantemente.
La vittimizzazione della disabilità può forse raccogliere dei fondi tramite quei terribili spot pubblicitari, nei quali osservo un tono drammatizzato associato alla immagine del bambino sofferente utile a raccogliere la pietà ( e 10 euro al mese) degli spettatori ma, d’altronde, questo vuole la nostra società, ovvero il vittimismo e la vittimizzazione, perchè protegge tutti dal porsi in discussione e scuda le stesse coscienze.
L’ignoranza contro la disabilità non dipende dalla spessore culturale o dalle lauree acquisite, se non quelle specifiche di chi vi lavora dentro, tanto che è manifestata anche dai dottoroni e non solo dal semplice cittadino con la terza media, ove questi ultimi hanno in realtà una sensibilità paradossalmente maggiore in alcuni casi.
Si crede ancora in ampi angoli del nostro Paese che un figlio disabile sia perciò una disgrazia, una malattia individuale e sociale da trattare con una qualche cura in attesa di un eventuale miracolo oppure, appunto, da guardare con gli occhi della vittimizzazione pur comprendendo l’imbarazzo di chi non sempre è capace di interfacciarsi con l’immagine delle tante diverse e gravi disabilità psicomotorie, alcune certamente impattanti.
Fino a non moltissimi anni fa i genitori tendevano a nascondere il figlio handicappato, infatti il sommerso era esso stesso un problema, poi con il passare degli anni la sensibilità sociale verso la disabilità è mutata ed oggi sono i genitori stessi in grado di associarsi e di sviluppare dei progetti autonomi per migliorare la qualità della vita dei loro figli, sovente appesantita proprio dalla assenza di piccole pratiche misure pubbliche utili a superare le barriere architettoniche e a migliorare quelle che si chiamano opportunità di inserimento e di integrazione.
Personalmente come madre e come pedagogista ritengo importante educare la società al mondo delle disabilità rispetto che il solo concentrarsi nei progetti di integrazione, con il rischio di rendere il più normale possibile ciò che ha delle diverse abilità e, per quanto possa raggiungere delle capacità anche elitarie, rimane un “diverso” perchè portatore di un handicap fisicomotorio sensoriale ed intellettivo che lo identifica come tale, ma non nella sua identità di persona, di soggetto sociale, di bambino in evoluzione che cresce in una società ancora troppo ignorante per comprendere che i bisogni speciali necessitano solo della normalità delle intelligenze.
Mia figlia Matilde ha 12 anni ed una passione per la vita immensa, con un danno assonale al corpo calloso del cervello che ci terrorizza nel suo spettro di un peggioramento ma, questo, non le impedisce e non ci limita nel vivere ogni giorno con la stessa passione, con la stessa spinta verso il futuro e con quella serena preoccupazione che ci accompagna ma non vogliamo trasformarla in una bandiera di vittimismo e di vittimizzazione che non ci appartiene.
Il suo sorriso è un esempio per comprendere che la vita merita il desiderio di viverla senza timore di perderla, senza recitare quel tipico “perchè proprio a noi?” quando siamo protagonisti di un brutto evento, frase che non serve a nulla se non a catalizzare la seducente ma sterile vittimizzazione.
Matilde mi insegna, ogni volta che la osservo autosomministrarsi i farmaci quotidiani che assume due volte al giorno, la capacità dei bambini di estrarre le risorse residue e di affrontare gli ostacoli con gli stimoli che proprio i bambini ed i ragazzi sanno manifestare, anche quando incontrano gli ostacoli dell’ignoranza, la peggiore delle disabilità.
Sara