La pedagogia è una scienza meravigliosa perchè invece di offrire “una cura” si concentra sulle risorse della persona e ne estrae anche quelle residue per investirvi “in prima persona” da parte di chi vive un disagio, con il supporto degli strumenti tecnici della pedagogista e della esperienza pratica in modo da coordinare gli assistiti in un percorso di equilibrio e di soluzione, senza cercare colpe, specialmente quando i figli “sclerano” e sembrano “odiare” la madre, il padre e tutti i componenti della famiglia.
Di fronte a questi episodi raramente estemporanei ma ripetuti nel tempo i genitori hanno solo due scelte, tra il porsi in discussione personalmente e cercare di capire se loro stessi o uno dei due potrebbero essere la causa del disagio del figlio o della figlia piena di rabbia e aggressività, oppure “classificare” quanto accade in una presunta “patologia” nella quale imprigionare i figli e scudare sè stessi nella bella fortezza della autoreferenzialità difensiva, contribuendo ulteriormente ad “allontanare” chi soffre il disagio (figlio) dal proprio disagio di ritrovarsi il figlio contro.
Chi è il protagonista, quindi, il figlio che sclera o il genitore che ne subisce le manifestazioni di aggressività?
Partendo da questo semplice quesito, vi indirizzo sin d’ora a comprendere che probabilmente vi è già una ingerenza nelle emozioni del figlio o della figlia da parte di una presenza genitoriale probabilmente troppo prevalente nella esistenza di chi appare esprimere un presunto “disturbo oppositivo provocatorio”, perchè così viene generalmente classificato da parte di chi in ampia misura “se la racconta” come genitore che persiste a non prendere coscienza che il problema lo manifesta il bambino o il ragazzino ma, la fonte, è il genitore stesso il quale, ora, cerca una soluzione di fronte alla aggressività che subisce dal figlio con una “sua” soluzione e non quella utile al bambino o ragazzo che vive ferocemente il problema.
Proviamo a fare un esempio ipotizzando un bambino che tra i sei-otto anni ed i 12-14 anni manifesta periodicamente dei momenti di rabbia verbale con grida, offese, opposizioni di varia natura, qualche volta anche violenza fisica verso le cose e le persone, apatia generale e specifica fino a forme di etero ed auto lesionismo progressivamente più gravi.
il genitore autoreferenziale, testimone di tutto questo, si chiede il perchè andando a ricercarne i motivi nel figlio stesso, anche chiedendo aiuto agli psicologi ed agli altri professionisti quasi sempre per sentirsi dire solo quel che vuole ascoltare e, nel momento in cui lo si tira dentro al problema, fugge e si trasforma nel genitore “capace” di diagnosticare il figlio e “gira il mondo” fino a quando non troverà qualcuno che ne sosterrà qualche ipotesi in tal senso, dal sempre utile disturbo oppositivo provocatorio fino a trovare ogni barlume di colpa lontana da sè, pur di non porsi in discussione.
Il genitore capace invece di porsi in discussione, testimone del disagio del figlio, saprà “fermare il mondo” e capire che è giunto il tempo di concentrarsi sulle esclusive esigenze del figlio che sclera, trattandolo da figlio e non da “paziente” oppure da soggetto “estraneo” alla bella e buona famiglia alla quale crea disagio, con il suo disagio, riuscendo così ad ascoltare quel bambino o quel ragazzo nella misura e nel linguaggio comunicativo di quel bambino e di quel ragazzo che grida di essere ascoltato nelle sue emozioni, tradotte in questo caso da un errato modo di comunicarle, proprio attraverso la rabbia e l’aggressività.
Accade infatti che molti bambini e ragazzi in piena fase evolutiva siano prigionieri della gestione di un genitore prevalente nella organizzazione di tutto quello che accade in famiglia e quindi nella loro vita, anche sotto forma di “controllo”, allo scopo di confinare tutti i membri ed in particolare chi sembra avere un disagio, nei limiti di ciò che il genitore stesso riesce a gestire e controllare, oltre i quali si sconfina nella sua ansia, nella sua angoscia, nella sua incapacità di affrontare il problema, suo e, non, dei figli che sclerano, i quali sono il veicolo personalizzato di un disagio familiare e non di una patologia individuale diagnosticata artigianalmente.
Facciamo l’esempio di una bella famiglia di cinque persone, padre madre figlio figlia e figlio più piccolo, brava gente onesta e gioviale ma con una guida unica, ovvero uno dei due genitori che gestisce, organizza, controlla e si dice in grado di farlo riducendo le qualità dell’altro genitore il marito o la moglie, evidentemente per qualche loro conflitto non elaborato o latente.
Genitore che decide dove andare e cosa fare, quando farlo e come farlo, credendo così di far felici tutti per il solo fatto che quanto organizza è piacevole e svolto in luoghi o situazioni sostanzialmente positive, per cui, si racconta, non può che essere bello per tutti per il solo fatto che egli o ella lo ritiene tale, tanto che non può che esserne gratificata o gratificato da tutti gli altri e, quando questo non accade, la sofferenza è manifestata dal ricatto morale, dalla vittimizzazione del dirsi che impossibile non amarmi perchè sono brava-o e buona-o e faccio cose belle per tutti.
Come fanno perciò, i membri della famiglia, a dire di no, a dire oggi non ho voglia, a dire basta con tutti questi giri e impegni, a dire si bello ma anche troppo, a dire oggi vorrei andarmene a fare cose per me e per la mia età, a dire oggi vorrei solo starmene a casa sul divano a non far nulla, a dire questo fine settimana restiamo a casa, a dire mamma, babbo, rilassati, fermati, è troppo, esistiamo anche noi magari con stili di vita e con interessi diversi dai tuoi o tali da mandare, te, in crisi.
Genitore al quale come pedagogista consiglierei di fare un semplice esercizio, quella della inversione di ruolo e di immaginare di essere il figlio o la figlia che “sclera” chiedendosi che cosa potrebbe vedere di sè stesso tramite gli occhi di chi appare “ingiustificatamente” aggressivo o rabbioso, così all’improvviso.
Vedrebbe probabilmente una madre o un padre “troppo” e, questo, non significa sbagliato o cattivo come genitore ma, semplicemente troppo, tanto da soffocare lo spazio degli altri membri della famiglia e di chi vive il disagio in particolare.
Perchè gli altri membri della famiglia o hanno ceduto e sopportano oppure hanno imparato a soddisfare le esigenze del genitore prevalente riuscendo nello stesso tempo a farsi una vita emotiva e relazionale propria, quasi clandestina.
Mentre il bambino o il ragazzo che sclera è, ed è stato, il contenitore di quel troppo che adesso straborda, tramite dei comportamenti i quali non meritano di essere classificati sotto forma di disturbi da DSM ma di essere compresi, accolti e capiti da parte del genitore, anche con l’aiuto dei professionisti sereni e qualificati.
Ma, questo, non potrà avvenire se il genitore stesso non comprende che la fonte di quel troppo è proprio lui o lei e, non, il bambino o la bambina che sclera.
Come pedagogista consiglierei quel bellissimo “fermiamo il mondo” con tutte le gite, le cene, le uscite e l’organizzazione di eventi familiari sempre caratterizzati dal confine della gestione dell’ansia e dell’angoscia anche sotto forma di bei momenti insieme.
Fermiamo il mondo e concentriamoci sul figlio o la figlia che sclera, senza andare cercare disturbi oppositivi di sorta ma, semplicemente, dedichiamogli tempo, attenzioni, ascolto, qualità di quel tempo di quelle attenzioni e di quell’ascolto specificatamente indirizzata a lui o a lei, coltivando un rapporto vero e caratterizzato dal linguaggio del bambino o del ragazzo, senza costringerlo a non dire quello che farebbe soffrire la madre o il padre.
Perchè se gli altri membri della famiglia hanno imparato, o si sono abituati, a soddisfare il genitore controller avendo compreso che tutto ciò che supera la sua gestione si trasforma in una (sua) sofferenza, costretti quindi a difenderlo-a, il bambino o ragazzo che sclera non vi riesce e patisce quella gestione prevalente come due mani che lo strozzano alle quali si ribella.
Forse, direi a quel genitore, è giunto il tempo di “fermare il mondo” e concentrarsi su quel figlio-a bisognoso di una sola cura, l’amore vero ed il rapporto di qualità tra genitore e figlio, nella sua misura senza costringerlo alla ingerente prevalente e del tutto inutile gestione del genitore.
Perchè vi è il rischio che crescendo possa peggiorare, non sotto il profilo di una diagnosi bensì andando a ricercare la compensazioni delle lacune create dal genitore controller, anche adeguandosi a comportamenti gruppali adolescenziali nocivi o altro di utile a quella angoscia proiettata in un figlio o in una figlia da parte di un genitore che non ha compreso che “non esiste solo lui o lei”.
Mi permetto di dire una cosa rispetto a quanto scrivo gratuitamente su queste pagine, ovvero delle consulenze che in studio avrebbero dei costi, spiegando le ragioni di questo confronto pro bono, le quali mirano a consentire a tutti i genitori di ricevere un supporto pedagogico professionale anche se privi di risorse per pagarselo o in favore di coloro che ritengono di essere “più bravi” pretendendo di sentirsi dire solo quel che vogliono ascoltare.
Basta, cari genitori, con quei comportamenti nocivi contro la serena crescita dei figli e delle figlie, datevi una calmata e guardate i vostri figli, ascoltateli oltre le grida e la rabbia, senza imprigionarli in qualche disturbo letto su internet, disturbo che soddisfa voi e non aiuta il figlio o la figlia.
Sara