La vita è sacra ma sacro è anche il diritto individuale della scelta autonoma, in questo caso quella di non dare la vita ad un figlio tramite l’aborto.

Un tema che divide e confligge, meritevole di superare le proprie personali convinzioni per confrontarsi con un argomento importante e spesso identificativo nei valori della vita stessa, specialmente per chi ha un forte radicamento alla fede.

Ho certamente le mie opinioni in materia di aborto, non difficili da comprendere come madre di cinque desiderati figli, ma queste non limitano la mia capacità di confrontarmi con quelle donne che, diversamente da me, hanno scelto di affrontare un percorso traumatico come lo è il rinunciare al proprio figlio, per ragioni e situazioni molto diverse che non possono trovare spazio nei confini del pregiudizio o nei doveri di fede, bensì l’umana accoglienza.

Ho avuto modo di assistere professionalmente delle donne prima e dopo aver contemplato la scelta e quindi abortito, senza trovare in loro nessun piacere nell’essersi “tolte un peso” oppure un perverso godere satanico per aver “ucciso” un feto. Ho visto invece tanta sofferenza quanto molta immaturità, su cui occorre riflettere con le intelligenze individuali e collettive e, non, con delle mere convinzioni sic et simpliciter.

L’aborto è un trauma in ogni caso, come tale occorre approcciarvisi senza prevenzioni di sorta nei confronti della donna che rinuncia fisicamente alla maternità, rispetto a coloro che invece vi rinunciano solo emotivamente evitando di restare incinte quando vorrebbero tanto essere madri, ma non credono di riconoscere nella loro situazione le condizioni generali e specifiche per crescere un figlio con tutte le responsabilità del suo significato.

Una donna può convintamente scegliere di non essere madre, come chi desidera esserlo oltre ogni “regola” preconcetta, spesso basata sul mero requisito materiale, come tale degne di ogni confronto basato sul rispetto e su quella necessaria empatia utile a fare una inversione di ruolo, tramite la quale tentare di capire e di capirsi. Restare su fronti contrapposti non serve ad altro che a scavare trincee.

Chi ha vissuto l’aborto, per scelta o per necessità o, in alcuni casi, forzato per imposizioni terze o per rischi patologici, ne porta i segni anche se silenti o camuffati nei tanti meccanismi difensivi che permetteno di rimuovere il ricordo o di dissimulare la sofferenza, perchè come ho detto non ho mai conosciuto delle donne festose una volta uscite dalla “sala non-parto”, nemmeno quelle vittime di violenza sessuali a causa della quale sono rimaste incinte.

L’aborto in ogni sua forma non merita alcun valore giudicante ma solo la capacità di accoglierne il dolore, perchè rinunciare ad un figlio, non dare la vita ad un bambino interrompendone la gestazione, rappresenta un confronto sociale oltre che un vissuto personale di sofferenza, su cui discutere con gli strumenti della realtà e, non, con mere bandiere di parte.

Una donna ha il diritto di scegliere, se autonoma nel farlo, qualunque sia il nostro pensiero e, come madre di cinque figli, sarò sempre accanto a lei anche se deciderà di raggiungere quella sala non-parto, perchè l’isolamento e la solitudine in un momento del genere rappresenta il peggior aborto dei rapporti umani di cui tutti noi saremmo colpevoli. Allo stesso modo offrendo ogni richiesto confronto per capire la convizione reale di un simile percorso.

Ci sono scelte nella vita che non possono essere comprese con il solo raziocinio ed il buon senso, per questo occorre il coraggio delle emozioni di andare anche oltre il proprio pensiero, la propria fede ed incontrare colei che, per mille suoi motivi che non necessariamente deve far sapere, ha scelto di ricorrere all’aborto.

Sara